I was here for just one month, but I know that I must say something about this awesome place, I know it deserves a lot of words, and beautiful ones, and I don’t know how to do because beautiful words about this very place were written by Aubreymcfato, so it’s better to just read those, since I 100% agree.
dill
Un mio articolo per IC-ININFO 2011
The article will be also published in the conference proceedings, which should be open access; I will give you more details as soon as I get them.
For now, I can give you some brief details about my study; it was a questionnaire administred to the scholars of Tallinn University (TLU) about their usage of RMS; the results can be summarized as follows:
- due to the structure of TLU, responses came mostly from humanities – scientific disciplines are scarcely covered
- there is general awareness of RMS (75%) but not much usage (only 56% of active usage)
- Endnote and Zotero are the most used softwares, followed by Refworks (for which the library provides licenses and support)
- the role of the library for support is not always indicated (only 11%) but mostly for lack of interest; generally the opinions about library staff and competence are good
- a general lack of comprehension of the potential of the RMS emerges, and more advocacy is advisable.
It doesn’t look much, I know. As soon as I clarify the issues related to the publication, I will post a link to the full article; I also hope to get deeper into this type of studies with my master thesis, which I will start next January. For the moment, I am happy to have collected some actual data to work on!
Sulle comunità Open Source
Dopo tanto tempo, è bene che ritorni a parlare un po’ di Open Source. Specialmente in questi ultimi tempi in cui mi spendo tanto a parlare di Mendeley in giro, dovrei comunque ricordare che un software “gratuito” non vuol dire “libero” né tantomeno “aperto”. Tantomeno dobbiamo dimenticarci delle logiche commerciali che stanno dietro una struttura ormai sempre più estesa e ramificata. Nei giorni seguenti alla morte di Steve Jobs, inoltre, tornare a ricordare il valore dell’apertura tecnologica è forse ancora più necessario.
Negli ultimi giorni mi è venuto da fare una riflessione sulle comunità open-source. Qui a Parma abbiamo avuto come docente Ian Witten, il creatore di Greenstone, il celebre software open-source per la costruzione di depositi digitali. Lui ci ha confessato che la “comunità” di utenti non è per niente attiva nello sviluppo. Gli utenti di Greenstone solitamente sono utenti “base”, e non hanno le competenze informatiche per offrire un contributo costruttivo al software; si limitano a essere utenti passivi, bisognosi di assistenza – come era per noi con Sebina: quando qualcosa non funziona, si chiama la ditta che lo metta a posto.
Sebina è però un software chiuso e commerciale. Brutte notizie per il mondo open-source, se un software così diffuso non riesce a crescere sui propri utenti.
Libertà, a quanto pare, è partecipazione. Senza di essa, un software libero non è altro che un inaffidabile esperimento lasciato a metà.
La biblioteca pervasiva
Durante le discussioni-esercitazioni accese nelle lezioni di Carol Kuhlthau, parlando di Information Seeking Practice e di Information Literacy, si sono accumulate nella mia mente nuove riflessioni relative ai mutamenti richiesti dal ruolo delle biblioteche. Tema logoro e irrisolto, lo so: che cosa significa fare literacy in un mondo digitale, come evitare che la biblioteca fisica si dissolva nel digitale, facendo scomparire investimenti e professioni, come far sì che gli esperti dell’informazione (o i mediatori dell’informazione, chiamiamoli bibliotecari) non vengano dimenticati dagli utenti dell’informazione.
Ho spesso ripetuto che la chiave di salvezza è la formazione, l’information literacy. Che la biblioteca deve rimanere il luogo in cui magari non si accede più fisicamente alle risorse, ma in cui si deve poter ricevere un supporto e una mediazione utile e formativa. Ho sempre identificato questa funzione con il bancone del reference, forse in maniera più simbolica che reale, inteso come un baluardo di esperti, un punto di riferimento, posto al centro del cono di luce dell’atrio circolare di un’utopica biblioteca.
Ma quello che mi è venuto in mente è che forse occorre andare oltre il bancone del reference, scavalcarlo. Nella discussione in classe, anche Live – così come Jakaria tempo prima – riflette che la biblioteca sarà digitale, ma il bibliotecario può ancora continuare a essere fisico. E se le collezioni non sono più fisiche ma la mediazione può continuare a esserlo, allora non è detto che il biblitecario debba stare dietro un bancone, o in un ufficio, ma può muoversi liberamente in mezzo agli utenti. Allora mettiamo un bibliotecario in ogni angolo del nostro sistema, addosso ai ricercatori, in mezzo agli studenti come un angelo custode, e lasciamo che sia lui a condurli attraveso le risorse. Trasformiamo i bibliotecari in consulenti itineranti, che fissano appuntamenti con i ricercatori, che intervengono nelle lezioni, che visitano i laboratori e gli uffici e le aule.
Una cosa secondo me molto grave che notiamo di continuo è la discrepanza fra ciò che gli utenti usano (le risorse, i servizi “immediati”) e ciò che gli utenti sanno (chi fornisce risorse e servizi, e a quale prezzo). Il contesto della biblioteca digitale è invisibile, trasparente. Se questo può fare piacere ai sostenitori dell’usabilità, che vedono saltare le mediazioni in favore di un approccio più seamless nella ricerca, si rivela un grande problema per l’immagine della biblioteca, e del suo ruolo strategico: gli utenti non sanno che esiste una biblioteca dietro il servizio che usano. Non sanno che esiste uno staff che cura e predispone quelle collezioni; non sanno che esiste un’amministrazione che paga – salato – per quelle risorse; non sanno che ci sono scelte, dinamiche, politiche e conseguenze dietro quello che appare semplicemente come un pulsante magico – “accedi alla risorsa” – che fino a pochi momenti prima non era lì ma non ci abbiamo fatto caso.
Non lo sanno perché tutto è già presente nel loro computer. Ma che queste cose si sappiano secondo me è fondamentale. Quindi occorre fare tanto marketing, “dire la verità” e indicare che cosa è veramente la biblioteca, che la biblioteca anche se digitale e remota e accessibile significa struttura, e staff, e soldi, e supporto. Significa presenza. Una presenza non più legata all’edificio, e alla sua sala di consultazione, e al suo catalogo, ma resa manifesta dalla persona fisica e dalla sua relazione con l’utente. Una presenza fluida, flessibile e pervasiva. Non sto negando che il supporto e l’interazione possano avvenire digitalmente (tramite i servizi di interazione digitale, i social network, il cosiddetto 2.0, ecc.), ma voglio sottolineare che questa attività è condotta da persone, da nomi e da facce.
Poi certo la biblioteca come luogo fisico è fondamentale se non altro per il significato psicologico che comporta – fisico sociale percettivo culturale ambientale, punto di riferimento anche iconico – ma trasformiamo la biblioteca in qualcosa di presente. Se nell’era dell’accesso andare in biblioteca non serve più, può essere ancora utile fare sì che siano i bibliotecari a muoversi e spostarsi per andare dove ci sono gli utenti, con un portatile sottobraccio, e spiegare queste cose. In questo modo la biblioteca si manifesta dovunque, lì dove c’è l’esperto che la introduce.
Questo tra l’altro si concilia con alcuni punti del recente e discusso post di Seth Godin sul futuro delle biblioteche: l’evoluzione della biblioteca non passa più dalla biblioteca, ma dal bibliotecario, che la anima, la fa vivere, la traduce nella lingua del lettore.
ANADP 2011 and Educational Alignment
I would like to tell about interesting ideas arising from the Panel 5: Education Alignment, about education and its relation with the job market; topic very hot for our group of students in the first row.
During the breakout session Joy Davidson asked us some suggestions about how to integrate better the training courses in the ongoing working initiatives. I could not answer at the moment (have you heard about the spirit of the stairway?) but after few days of reflection I came up with the following.
My idea is that institutions should look closer at students in schools as potential future employees. They should be more active “inside” the schools: instead of waiting for the end of the courses, when students start sending cvs around, they should anticipate this moment and get to know students better, directly and closer, through visiting lecturers, aimed seminars, internship programs. The relationship between institutions and schools should be more active, dynamic and bi-directional during the school years, and not afterwards; schools, as I have written, should be seen as “recruitment camps” by library institutions. Or if you allow me a word-game, schools must be considered as “fishing-schools”, where “new young talents” can be directly chosen and selected as the future staff.