Dove l’autore, a causa della tremenda monotonia del suo lavoro, decide di cimentarsi in un esperimento di biblioteconomia digitale, allo scopo di imparare un po’ di programmazione e di poter godersi meglio un grande videogioco. Ha così creato un epub contente tutti i libri di The Elder Scrolls IV: Oblivion. Il file si può scaricare da qui. Quello che segue invece è il racconto di “come lo feci”.
Il mondo di The Elder Scrolls
Il mondo della saga di The Elder Scrolls è bellissimo. Il giocatore, attraverso il suo personaggio, è catapultato in un universo vastissimo che può esplorare in totale libertà. Apparentamente disorientati da una certa mancanza di binari narrativi – le quest sono sempre facoltative e lo scorrere del tempo sembra non alterare di granché il rapporto con i personaggi non giocanti – si scopre piano piano un’ambientazione profondissima, ricca di storia e di tradizioni. Scopriamo che dietro ogni commento fra gli avventori di una locanda o le aule di un palazzo c’è una storia immensa che non viene raccontata direttamente, ma che esiste, presente, in attesa di essere svelata se il giocatore è abbastanza curioso. Il mondo di The Elder Scrolls (TES) è per certi versi simile a quello di Tolkien: la storia principale non è che la superificie di un’ambientazione ricca e complessa. Questo background affiora continuamente, con eleganza e discrezione, attraverso dei piccoli elementi che compaiono nel racconto, e che agiscono come delle finestre che dall’interno della narrazione principale si schiudono verso un mondo più ampio e profondo. Queste “finestre” nell’opera di Tolkien sono rappresentate dalle poesie e le canzoni che i personaggi scambiano durante il loro lungo viaggio, nelle brevi soste intorno al fuoco o al rifugio fra i palazzi di Rivendell. In TES invece sono i numerosi libri sparsi per il mondo, dagli scaffali delle gilde ai bauli nascosti nelle grotte, dalle case dei personaggi ai ripiani delle librerie, ciascuno dei quali può essere raccolto, rubato, comprato, ma soprattutto letto nella sua interezza dal giocatore.
Visto che non ho niente di meglio da fare o da dire, guardate questa bella intervista a Robert Darnton sulle biblioteche nell’era digitale.
È in inglese, e non ci sono (ancora) sottotitoli: se non sapete l’inglese imparatelo. Oppure guardate questo video cento volte di seguito finché non iniziate a capirci qualcosa (la nostra prof di latino ci ha insegnato così).
Nonostante non dica cose nuovissime o sorprendenti, ascoltare e leggere Darnton è cosa buona e giusta, e fa sempre bene alla salute.
Quest’estate passeggiavo per i paesini dell’Appennino Bolognese con un’amica pittrice, e lei mi parlava del suo amore per la materia, il contatto fisico con essa, il lavoro manuale e la creatività artistica che ne può scaturire. Lei studiava come riprodurre la matericità delle cose – le texture delle pietre, gli aloni delle carte, le venature dei legni – attraverso la pittura. Per questo ho approfittato delle mie (ahimè poche) conoscenze bibliologiche per spiegarle i diversi tipi di carta impiegati lungo la storia del libro, dalla pergamena alla carta di stracci, fino alla carta industriale dei tascabili Gallimard che ingiallisce e si sgretola dietro i vetri della BNF. A un certo punto, lei ha commentato il suo interesse per la questione con una frase che mi aspettavo, ma che è comunque riuscita a spiazzarmi. Ha detto: “questa attenzione per la carta come materiale diventa sempre più importante, perché la carta, se ci pensi, è qualcosa che oggi giorno i nuovi strumenti di lettura digitale ci stanno togliendo“.
Visto che la mia vita è dominata dallo Spirito della Scalinata, mi tocca scrivere qui quello che avrei voluto risponderle, per dare una luce più ampia alla questione e trasformare la paura di povertà nella meraviglia della possibilità.
Il fatto è questo. L’amore che abbiamo per la carta – e per i libri, e per il loro odore, e per le macchie di giallo che si formano con il tempo quando li dimentichi al sole – deriva dal fatto che per secoli è stata il mezzo con cui abbiamo trasportato le parole e i pensieri che ci hanno fatto vivere. Le poesie e i romanzi, la scienza e la filosofia. Hanno vissuto sulla carta e ce li siamo passati di mano con la carta. Ma la carta è un messaggero, non è il messaggio. Noi la amiamo per quello che ha trasportato, non per la sua natura in sé. Questo significato lo abbiamo aggiunto noi attraverso l’uso che ne abbiamo fatto, non era intrinseco nella sua natura. Ma sarebbe sbagliato dimenticare il messaggio per il messaggero.
Oggi a trasportare questi messaggi ci sono altri messaggeri. Ci sono i bit, gli e-book reader, i network. Ci sono libri codificati nel DNA. Ci sono nuovi modi per creare e condividere questi messaggi. È più brutto? No. È meno “fisico” e materiale? Sì, a meno di non riuscire a comprendere tangibilmente il digitale (lo so, la fantascienza tutta si sta bagnando a solo leggere queste mie righe). È qualcosa che ci impoverisce? No – non solo perché la carta non morirà mai (anche se dovesse vivere solo nella pittura della mia amica, o nelle lettere d’amore, o nei paralumi cinesi) ma soprattutto perché, come direbbe Feynman, tutto questo “non sottrae” niente. (Parafrasando il fisico, mi viene da chiedermi che razza di scrittori sono questi, che riescono a immaginare il mondo come una grande biblioteca, ma non riescono a immaginarlo come un’immensa rete di connessioni digitali?)
E, soprattutto, perché quello che conta veramente è il messaggio, non il messaggero. Impareremo ad amare anche questi messaggeri. Impareremo a creare una filìa anche del digitale. Ci saranno dei Borges che ne scriveranno, edificando mondi e suscitando suggestioni.
This summer I was walking through the villages of the country around Bologna with a painter friend, and she was talking about her love for the materials, the physical contact with them, the manual labor and the artistic creativity that may ensue. She was studying how to recreate the materiality of things – the textures of stone, the veins of wood, the halos of paper – through painting. So I used my (little) bibliological knowledge to explain the different types of paper used throughout the history of the book, from parchment to paper rags, to the industrial paper of Gallimard paperbacks which turn yellow and crumble behind the windows of BNF. At one point, she commented with this statement: “this attention to the paper as a material becomes more and more important, because paper is something that today is being taken away from us by the new tools of digital reading“.
My life is dominated by the Spirit of the Staircase, so I have to write here what I wanted to tell her, to give a broader light to the issue.
Here’s the thing. The love we have for paper – and books, and the smell of them, and the yellow dots that form over time when you forget the sun – comes from the fact that for centuries it has been the medium on which we carried the words and thoughts that made us alive. Poems and novels, science and philosophy. They lived on the paper and tthey were passed hand by hand through paper. But paper is a messenger, not the message. We love it for what it conveys, not for its nature itself. We have added this meaning through its use, it was not part of its nature. But it would be wrong to mistake the message for the messenger.
Today, to deliver these messages, there are other messengers. There are bits, e-book readers, the web. There are books encoded in the DNA. There are new ways to create and share these messages. Is it bad? No. Is it less “physical” and material? Yes, unless you are able to tangibly understand the digital (I know, science fiction is totally turned on now). Is it something that makes us poor? No – not only because paper will never die (even though it may only live in the paintings of my friend, or in love letters or in Chinese lamps) but also because, as Feynman would say, this “does not subtract” anything. (Paraphrasing the physicist, it makes me wonder what kind of writers are those who are able to imagine the world as a large library, but can not imagine it as a huge network of digital connections?)
And most important, because what really matters is the message, not the messenger. We will learn how to love these messengers. There will be a filìa of the digital as well. There will be new Borges who will inspire building new worlds.
P.S.: questo post si collega lateralmente a un tema discusso sul blog di Virginia Gentilini, a cui voleva essere un commento.
P.P.S.: visto che niente avviene per caso, ieri sera mi è capitato di vedere una delle più belle puntate del Doctor Who – Silence in the Library – in cui non solo la biblioteca ritorna a essere metafora dell’universo, ma questa metafora include la persistenza digitale dei ricordi, dei pensieri, delle anime. L’episodio non è recente, ma credo che sia la prima volta che trovo una rappresentazione popolare così efficace e toccante della biblioteca digitale. La mia anima nerd e quella bibliotecaria, grazie al Dottore, si sono prese per mano e si sono commosse.
PPS: since nothing happens by chance, last night I happened to see one of the best episodes of Doctor Who – Silence in the Library – where not only the library returns to be a metaphor of the universe, but this metaphor includes the persistence of digital memories, thoughts, souls. The episode is not new, but I think it’s the first time I find a popular representation of the digital library so effective and moving. My nerd soul and my librarian soul, thanks to the Doctor, took each other by the hand, and were moved.
Questo sito, come tutti i siti web del mondo, utilizza i cookie. Non è strano: è internet che funziona così, ed è giusto che tu lo sappia. Visitando questo sito accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Clicca qui se vuoi saperne di più
The cookie settings on this website are set to "allow cookies" to give you the best browsing experience possible. If you continue to use this website without changing your cookie settings or you click "Accept" below then you are consenting to this.