La mia vita di lettore deve tutto a due persone: Emlio Salgari, e lui. Come Le Tigri di Mompracem mi trasportarono per la prima volta in un mondo di fantasia e avventura, così i librogame della saga di Oberon furono la prima vera lettura che mi fece innamorare dell’oggetto libro e della magia che conteneva. Più che quella di Lupo Solitario, la sua saga più famosa, fu l’avventura “minore” di Oberon (Grey Wyzard in inglese) a catturarmi per non lasciarmi mai più.
Oberon il giovane mago
Prima di Borges e delle sue superbe metafore sulle biblioteche ricorsive e i sentieri che si biforcano; prima di Calvino e dei suoi giochi meta-letterari sui destini incrociati; prima di Umberto Eco e i suoi libri che “si parlano fra loro”; prima dell’ipertestualità dei giochi per computer, dalle avventure testuali a i “tripla A” di oggi [1]; prima dell’immersione offerta dai giochi di ruolo, furono i librogame di Joe Dever ad aprirmi la porta verso il più grande e appassionante gioco intellettuale che esista: la letteratura.
Soprattutto, i Librogame mi insegnarono tre cose sulla lettura: che non è lineare, non è conclusiva, non è passiva.
“In questo libro il protagonista sei tu“, recitava lo slogan che accompagnava i Librogame e i Choose Your Adventure books. Le avventure di Joe Dever e poi di tutti gli altri insegnavano che ogni lettura richiede l’intervento attivo del lettore, la sua mediazione fantastica, il suo contributo emotivo.
Questi elementi non si esauriscono con la fine del libro, ma continuano in nuovi processi creativi e intellettuali. Il libro è un “mezzo” verso “altre cose” – o perlomeno altri libri. Le biblioteche, digitali e non, si basano su questo.
Ripensando a Joe Dever, è impossibile non ricordare come nei suoi libri la morte del protagonista (e quindi del lettore) – che avveniva attraverso un paragrafo corto e triste, privo di sbocchi – permetteva di ricominciare da capo e scoprire nuovi intrecci e nuove storie dagli esiti diversi.
In casi come questi, la sensazione più forte che rimane è quella di voler continuare noi a raccontare storie su storie, di paragrafo in paragrafo, di libro in libro. Non ci resta nient’altro da fare.
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[1] Non è un caso che i Librogame furono portati in Italia dalla EL in una collana curata dal prof. Giulio Lughi, esperto di multimedialità e interattività.
Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso. I libri erano soltanto una specie di veicolo, di ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare. Non c’è nulla di magico, nei libri; la magia sta solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell’Universo per mettere insieme così un mantello di cui rivestirci.
Qui c’è tutto quello che ho pensato più volte parlando di supremazia dell’oggetto libro, di libro vs. ebook, di rapporto fra manufatto e conoscenza. I libri sono importanti, sì, ma non sono un oggetto sacro (“non c’è nulla di magico, nei libri“); sono uno dei tanti mezzi con cui trasmettiamo noi stessi – i nostri pensieri, le nostre emozioni, la nostra cultura e conoscenza. Ma sono uno dei tanti e non l’unico (“… in vecchi dischi“). In quanto trasmettitori, sono secondari rispetto al contenuto trasmesso, vengono dopo, come avevo argomentato parlando di carta e messaggeri. E non è nemmeno detto che siano gli oggetti (i manufatti) a essere unici depositari di quella cultura: essa è presente nelle persone prima di tutto (“… nei vecchi amici“, o come vorrebbe Lankes nella comunità: “La comunità è la principale collezione della biblioteca…” eccetera).
La conoscenza, infine – tema che a me piace moltissimo – può essere implicita (“cercatele nella natura e cercatela soprattutto in voi stesso“), quindi da scoprire ogni volta e ogni volta irripetibile e incomunicabile, individuale e personale, la scintilla di connessione intima e autentica fra il soggetto e l’oggetto, e la loro fusione (Zen vs Cartesio, secondo la nota “la filosofia da bar”).
Infine mi piace pubblicare queste riflessioni dopo aver letto le belle parole, candide e ingenue, banalissime ma condivisibili, di questo pezzo di M. Mantellini: Libri di carta e di bit.
Il 13 ottobre a Napoli si terrà la prima Giornata Nazionale delle Biblioteche, un evento che vuole evidenziare “il nostro orgoglio e l’amore per il nostro lavoro” come dice bene il presidente AIB Stefano Parise.
Sono molto felice dell’idea e sostengo l’iniziativa.
Inoltre mi torna in mente il piacevole “Hug a librarian Day” vissuto a Tallinn nel 2011: è stato molto carino!
On October 13, in Naples, there will be the first BiblioPride – National Library Day – an event that aims to express “our pride and our love for our job”, as Stefano Parise, president of AIB, well says.
.book by Barbara Piancastelli (source Flickr - CC-BY-NC-SA)
Quest’estate passeggiavo per i paesini dell’Appennino Bolognese con un’amica pittrice, e lei mi parlava del suo amore per la materia, il contatto fisico con essa, il lavoro manuale e la creatività artistica che ne può scaturire. Lei studiava come riprodurre la matericità delle cose – le texture delle pietre, gli aloni delle carte, le venature dei legni – attraverso la pittura. Per questo ho approfittato delle mie (ahimè poche) conoscenze bibliologiche per spiegarle i diversi tipi di carta impiegati lungo la storia del libro, dalla pergamena alla carta di stracci, fino alla carta industriale dei tascabili Gallimard che ingiallisce e si sgretola dietro i vetri della BNF. A un certo punto, lei ha commentato il suo interesse per la questione con una frase che mi aspettavo, ma che è comunque riuscita a spiazzarmi. Ha detto: “questa attenzione per la carta come materiale diventa sempre più importante, perché la carta, se ci pensi, è qualcosa che oggi giorno i nuovi strumenti di lettura digitale ci stanno togliendo“.
Visto che la mia vita è dominata dallo Spirito della Scalinata, mi tocca scrivere qui quello che avrei voluto risponderle, per dare una luce più ampia alla questione e trasformare la paura di povertà nella meraviglia della possibilità.
Il fatto è questo. L’amore che abbiamo per la carta – e per i libri, e per il loro odore, e per le macchie di giallo che si formano con il tempo quando li dimentichi al sole – deriva dal fatto che per secoli è stata il mezzo con cui abbiamo trasportato le parole e i pensieri che ci hanno fatto vivere. Le poesie e i romanzi, la scienza e la filosofia. Hanno vissuto sulla carta e ce li siamo passati di mano con la carta. Ma la carta è un messaggero, non è il messaggio. Noi la amiamo per quello che ha trasportato, non per la sua natura in sé. Questo significato lo abbiamo aggiunto noi attraverso l’uso che ne abbiamo fatto, non era intrinseco nella sua natura. Ma sarebbe sbagliato dimenticare il messaggio per il messaggero.
Oggi a trasportare questi messaggi ci sono altri messaggeri. Ci sono i bit, gli e-book reader, i network. Ci sono libri codificati nel DNA. Ci sono nuovi modi per creare e condividere questi messaggi. È più brutto? No. È meno “fisico” e materiale? Sì, a meno di non riuscire a comprendere tangibilmente il digitale (lo so, la fantascienza tutta si sta bagnando a solo leggere queste mie righe). È qualcosa che ci impoverisce? No – non solo perché la carta non morirà mai (anche se dovesse vivere solo nella pittura della mia amica, o nelle lettere d’amore, o nei paralumi cinesi) ma soprattutto perché, come direbbe Feynman, tutto questo “non sottrae” niente. (Parafrasando il fisico, mi viene da chiedermi che razza di scrittori sono questi, che riescono a immaginare il mondo come una grande biblioteca, ma non riescono a immaginarlo come un’immensa rete di connessioni digitali?)
E, soprattutto, perché quello che conta veramente è il messaggio, non il messaggero. Impareremo ad amare anche questi messaggeri. Impareremo a creare una filìa anche del digitale. Ci saranno dei Borges che ne scriveranno, edificando mondi e suscitando suggestioni.
This summer I was walking through the villages of the country around Bologna with a painter friend, and she was talking about her love for the materials, the physical contact with them, the manual labor and the artistic creativity that may ensue. She was studying how to recreate the materiality of things – the textures of stone, the veins of wood, the halos of paper – through painting. So I used my (little) bibliological knowledge to explain the different types of paper used throughout the history of the book, from parchment to paper rags, to the industrial paper of Gallimard paperbacks which turn yellow and crumble behind the windows of BNF. At one point, she commented with this statement: “this attention to the paper as a material becomes more and more important, because paper is something that today is being taken away from us by the new tools of digital reading“.
My life is dominated by the Spirit of the Staircase, so I have to write here what I wanted to tell her, to give a broader light to the issue.
Here’s the thing. The love we have for paper – and books, and the smell of them, and the yellow dots that form over time when you forget the sun – comes from the fact that for centuries it has been the medium on which we carried the words and thoughts that made us alive. Poems and novels, science and philosophy. They lived on the paper and tthey were passed hand by hand through paper. But paper is a messenger, not the message. We love it for what it conveys, not for its nature itself. We have added this meaning through its use, it was not part of its nature. But it would be wrong to mistake the message for the messenger.
Today, to deliver these messages, there are other messengers. There are bits, e-book readers, the web. There are books encoded in the DNA. There are new ways to create and share these messages. Is it bad? No. Is it less “physical” and material? Yes, unless you are able to tangibly understand the digital (I know, science fiction is totally turned on now). Is it something that makes us poor? No – not only because paper will never die (even though it may only live in the paintings of my friend, or in love letters or in Chinese lamps) but also because, as Feynman would say, this “does not subtract” anything. (Paraphrasing the physicist, it makes me wonder what kind of writers are those who are able to imagine the world as a large library, but can not imagine it as a huge network of digital connections?)
And most important, because what really matters is the message, not the messenger. We will learn how to love these messengers. There will be a filìa of the digital as well. There will be new Borges who will inspire building new worlds.
The Doctor in the (digital) library
P.S.: questo post si collega lateralmente a un tema discusso sul blog di Virginia Gentilini, a cui voleva essere un commento.
P.P.S.: visto che niente avviene per caso, ieri sera mi è capitato di vedere una delle più belle puntate del Doctor Who – Silence in the Library – in cui non solo la biblioteca ritorna a essere metafora dell’universo, ma questa metafora include la persistenza digitale dei ricordi, dei pensieri, delle anime. L’episodio non è recente, ma credo che sia la prima volta che trovo una rappresentazione popolare così efficace e toccante della biblioteca digitale. La mia anima nerd e quella bibliotecaria, grazie al Dottore, si sono prese per mano e si sono commosse.
PPS: since nothing happens by chance, last night I happened to see one of the best episodes of Doctor Who – Silence in the Library – where not only the library returns to be a metaphor of the universe, but this metaphor includes the persistence of digital memories, thoughts, souls. The episode is not new, but I think it’s the first time I find a popular representation of the digital library so effective and moving. My nerd soul and my librarian soul, thanks to the Doctor, took each other by the hand, and were moved.
Oggi mi è capitato di leggere un recente articolo di Robert Darnton dal titolo: 5 Myths About the ‘Information Age’. Il titolo mi ha subito incuriosito: so che “miti” vuole spesso dire “preconcetti”, e mi piace quando i preconcetti vengono smontati, perché rivelano la reale complessità sotto la superficie del bla bla mediatico. Come dice Darnton nell’introduzione, “la confusione sulla cosiddetta società dell’informazione ha portato a uno stato di falsa consapevolezza collettiva“. Come a dire: ci stiamo abituando a parlare di cose che non hanno a che fare con la realtà. Di fuffa, insomma.
Secondo Darnton la “fuffa” si riassume in 5 punti essenziali, che mi piace commentare.
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