Etichette e recinti

Chi mi conosce sa che ho sempre cercato di difendere la distinzione fra contenuto e contenitore, fra servizio e fra fornitore del servizio, fra scopo e strumento. Prima di tutto perché è più efficiente la gestione di entrambi – contenuto e contenitore – quando questi sono separati – e fin qui siamo tutti d’accordo.

Poi per via di un aspetto se vogliamo più concettuale: la piattaforma non deve essere identificata con la sua funzione. A suo tempo, ispirato dalle parole di Dorothea Salo, avevo insistito affinché il Deposito Istituzionale dell’Università di Torino non si chiamasse Dspace, come tutte le installazioni di Dspace allora esistenti, ma venisse battezzato con un nome più personale e slegato al software utilizzato. Questo perché dobbiamo essere liberi di cambiare strumento, quando se ne presentassero di migliori, mantenendo l’identità e l’integrità di quello attuale (un po’ come sta facendo in questi giorni E-Lis, che sta migrando da Eprints a Dspace). Cambiare nome a un servizio intorno al quale cui si costruisce un branding, un’immagine, un percorso di formazione e un insieme di prassi quotidiane, non è il massimo.

Per lo stesso motivo mi dispiace vedere un grande hype intorno a Twitter, come se fosse l’unico e il solo servizio di microblogging esistente. Un po’ come è Google per i motori di ricerca – con la differenza che Twitter non è così totalizzantemente efficiente (si dirà così?) come BigG. Le funzioni di Twitter sono analoghe a quelle di tante altre piattaforme: chessò, Qaiku, Identi.ca, Plurk, e compagnia bella. Semmai il valore aggiunto sta nel bacino di utenza, il che meriterebbe un discorso a parte, ma non nello strumento in sè.

Una conseguenza pratica è che le piattaforme “social” (ah, una digressione: il giorno che i termini “social web” e “web 2.0” passeranno di moda venitemi a cercare, perché offrirò da bere) consentono in maniera molto limitata l’interazione, l’interoperabilità e l’integrazione. E’ paradossale, se si pensa allo scopo per cui sono pensati. I miei amici su Twitter non possono seguire i miei post su Identi.ca. Posso reindirizzarli da Identi.ca a Twitter, ma così non solo si duplicano le informazioni (il che, come ben sanno i bibliotecari di tutto il mondo, è male), ma il beneficio è limitato, perché le relazioni, le risposte, i re-tweet non possono funzionare.

I social network sono degli allegri recinti in cui le persone si incontrano e si confrontano, ma sono recinti “chiusi”. Le mie fotografie su Flickr sono fotografie su Flickr. Posso linkarle dall’esterno, ma i metadati, i tag, i commenti sono quelli di Flickr, aperti agli utenti di Flickr. Ora, tutto questo è molto divertente, ci si conosce, si scambiano opinioni, c’è chi si trova la fidanzata su Anobii (ehm… galeotto fu il libro, e tutto il resto) ma a me non interessa “essere su Anobii” (o su Flickr, o su Twitter). A me interessa in primo luogo organizzare le mie informazioni, più che fare parte di una comunità. La comunità eventualmente la creo intorno a me raccogliendo anime solidali, ma non faccio il contrario. Preferisco avere un dominio personale anziché ospitare il blog su WordPress, perché non mi interessa fare parte della comunità di WordPress. WordPress è un servizio, un’infrastruttura, ma i suoi servizi io li utilizzo per essere nel mondo, non all’interno di WordPress.

Tutto questo per dire cosa?

Che i miei micro-post sono ospitati su Identi.ca, un servizio di microblogging basato sul software open-source Status-net, e possono essere letti via Twitter grazie a un banale riversamento.

Che tutto questo conferma la solita cosa che andiamo dicendo da diversi lustri: che legare i propri dati a una singola piattaforma, o non adeguarli agli standard, contraddice l’intento di integrazione e comunicazione per cui quei dati vengono creati e organizzati.

E che le etichette, i nomi che diamo alle cose, sono importanti. Dspace non è il deposito istituzionale. Sebina non è il catalogo – cosa di cui non sembrano rendersi conto quasi tutte le istituzioni clienti di Sebina: no, sul serio, amici romani compatrioti, vi pare il caso? Il tag “title” del catalogo non menziona nemmeno il nome della Sapienza; e cambiare sta c…o di label?

Etichette e recinti

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